Nata per il silenzio
Tratto da: La città morta di Marco Rizzo
La città era un inferno di corpi, un fiume congestionato di persone che si muovevano senza ordine, spinte da una fretta inutile e senza direzione. Non c’era spazio per fermarsi, per osservare, per respirare. La pressione della folla costringeva tutti a procedere in avanti, come un gregge spinto da un pastore invisibile. I turisti avanzavano accalcati, ognuno perso nella propria piccola bolla. Tutti guardavano davanti a sé, spaesati, come se cercassero qualcosa che non avrebbero mai trovato. Altri camminavano senza alzare lo sguardo dagli schermi dei loro cellulari zigzagando inconsapevolmente, urtando persone e muri guardando google maps. Il rumore era assordante. Una miscela di voci in decine di lingue diverse, mescolate al clic costante delle fotocamere e ai notificatori sonori dei telefoni. Le calli, pensate per il passo lento e rispettoso, sembravano soffocare sotto il peso di una folla che non apparteneva a quel luogo. La città, nata per il silenzio dell’acqua, era ora invasa da una folla che sembrava non sapere nemmeno dove stesse andando. Nessuno sembrava accorgersi del pavimento che calpestavano, del porfido che raccontava storie secolari. Nessuno notava le tracce lasciate dal tempo sui muri, le pietre macchiate di umidità. La città era lì, eterna e fragile, ignorata da chi la attraversava. Eppure, nonostante il caos, tutto sembrava avvenire in una specie di automatismo. La folla si muoveva come un organismo unico, ma privo di anima. Nessuno si fermava a chiedersi perché fosse lì, cosa stesse cercando. Era un pellegrinaggio senza fede, una marcia senza meta, un fiume di corpi che scorreva senza mai trovare pace. Nel cuore di questa frenesia, Venezia si piegava sotto il peso di una presenza che non poteva sostenere, soffocata da una folla che non si accorgeva nemmeno di starla consumando. Ogni respiro era un’impresa. L’aria, spessa e stagnante, sembrava appesantire i polmoni a ogni inspirazione. Era densa, appiccicosa, intrisa di odori che si mescolavano in un miscuglio nauseante: il sudore di troppe persone accalcate, l’aroma chimico dei deodoranti economici spruzzati in abbondanza per coprire l’inevitabile, e il grasso ormai rancido dei fritti. La città non aveva nome per loro, né storia. Era solo uno sfondo, un accessorio per il contenuto che avrebbero caricato sui social. Nessuno si fermava a osservare i dettagli, le pietre levigate dal tempo, le macchie scure lasciate dall’acqua che saliva nei giorni di marea. Era lì, ma non era visto. Un sacchetto di plastica che ora svolazzava, trascinato da un soffio di vento, finendo in un angolo dove già si accumulavano rifiuti di ogni tipo. Nessuno lo raccolse. Nessuno lo notò. Una fila interminabile di persone si accalcava sulla banchina, un fiume impaziente che si spingeva in avanti, non per necessità ma per ansia di salire su un vaporetto già stracolmo. Ogni passo era una battaglia: gomiti che colpivano costole, piedi che pestavano sandali, e zaini troppo grandi che si abbattevano su spalle e teste come arieti inconsapevoli. I passeggeri già a bordo osservavano con occhi sgranati la folla che tentava di forzare l’ingresso, come se il vaporetto fosse una scialuppa di salvataggio e non un semplice mezzo di trasporto. Qualcuno scuoteva la testa in segno di disapprovazione, altri si rassegnavano, stringendosi ulteriormente contro il parapetto o contro gli altri corpi, come se potessero magicamente creare spazio dove non ce n’era. Dentro, l’aria era densa, quasi palpabile, un mix tossico di sudore, umidità e odori di cibo stantio. I finestrini, appannati dal caldo, non lasciavano intravedere nulla all’esterno, e di certo non permettevano a un filo di vento di spezzare quel soffocante immobilismo. Ogni respiro era un atto di coraggio. Una donna, con i capelli raccolti in una coda spettinata, lottava contro un trolley enorme che sembrava avere vita propria. La maglietta, ormai completamente incollata alla schiena, mentre cercava di spingere il bagaglio sotto una panca già occupata. Un uomo in piedi accanto alla scena tirò fuori il telefono, sorridendo tra sé e sé. Senza alcuna discrezione, iniziò a filmare il caos con l’espressione divertita di chi stava registrando un video da postare online. Il telefono si muoveva con lentezza, catturando ogni dettaglio. La gente a bordo era un groviglio di corpi compressi, una massa disorganizzata che oscillava con il movimento dell’acqua. La città gemeva sotto il peso insostenibile di quella presenza. Le calli erano diventate un tappeto scomposto di bottiglie vuote, bicchieri di plastica schiacciati, e cartacce che si accumulavano negli angoli come se la città stessa cercasse di nasconderle. I bidoni della spazzatura, pochi e mal posizionati, traboccavano di rifiuti, formando piccole montagne maleodoranti che si allargavano a ogni ora. Attorno a loro si aggiravano i gabbiani, feroci e sfrontati, che frugavano tra i resti con il becco, spargendo il contenuto ancora di più sul selciato. Strillavano e si azzuffavano, contendendosi pezzi di pizza fredda, croste di panini mezzi mangiati e foglie di insalata appassite. Un gabbiano più audace degli altri afferrò con il becco un cono gelato ancora intatto, lasciato a terra da qualche mano distratta. Si sollevò appena in volo, ma fu subito attaccato da un suo simile, un combattimento caotico che fece volare pezzi di cialda in ogni direzione. Intanto, una sottile scia di liquido scuro colava da uno dei sacchi rotti, creando un rigagnolo che serpeggiava lungo il porfido, mescolandosi alla polvere e alla sporcizia accumulata. L’odore acre si mescolava a quello dell’urina che stagnava nelle calli più nascoste, un miasma che sembrava ormai impregnare ogni pietra, ogni angolo. Eppure, in tutto quel caos, il flusso umano continuava inarrestabile. Le valigie erano il sottofondo costante della città, un rumore sordo sulle antiche pietre del selciato. Ogni ruota cigolante, ogni colpo secco contro il porfido, sembrava aggiungere una nota al lamento della città. Migliaia di turisti, provenienti da ogni angolo del mondo, trascinavano i loro bagagli per calli troppo strette, ponti troppo ripidi, sottoportici troppo bassi. Le valigie erano ovunque. Grandi e piccole, rigide o morbide, colorate o anonime, ognuna con la sua storia. Alcune erano nuove di zecca, brillanti sotto il sole, come appena uscite da un negozio di lusso. Altre, consumate e malridotte, portavano i segni di troppi viaggi, troppo peso, troppi chilometri. C’era chi le trascinava con fatica, il viso rosso per lo sforzo, la mano tesa in un’angolazione innaturale per evitare che le ruote si incastrassero tra le pietre. C’era chi le portava con disinvoltura, lo sguardo fisso sul telefono mentre avanzava a tentoni, inciampando ogni tanto in un gradino o in un cane. E c’era chi le abbandonava per un attimo, lasciandole incustodite accanto a un muro, mentre si fermava a scattare l’ennesima foto o a cercare un indirizzo su Google mapps. I ponti erano il vero ostacolo. Ogni scalino era una sfida, ogni discesa una prova di equilibrio. I turisti si fermavano spesso in cima, bloccando il passaggio per riprendere fiato. Dietro di loro, la fila si allungava, e gli altri spingevano con impazienza, sollevando le proprie borse pesanti con espressioni esasperate. Il suono delle valigie era continuo, quasi ipnotico. La stazione era l’epicentro di quel caos. Gente che arrivava, gente che partiva, una marea di corpi e bagagli che si spostava senza sosta. I treni vomitavano nuovi arrivi, mentre altri gruppi, già esausti, si dirigevano verso il vaporetto o cercavano un taxi acqueo, trascinando dietro di sé il peso dei loro averi e, forse, del loro stesso viaggio. E la città, silenziosa, guardava tutto con la pazienza di chi non può fare altro che aspettare il prossimo colpo, il prossimo arrivo, la prossima valigia. I bambini erano una rarità. Le calli, un tempo animate dalle grida e dalle corse dei piccoli, erano ora dominate da un altro tipo di compagnia: i cani. Ogni angolo della città sembrava popolato da coppie e famiglie che passeggiavano al guinzaglio, portando con sé in carrozzine, non figli, ma animali di ogni razza e dimensione. I cani avanzavano con passo sicuro, le zampe sul porfido consumato, mentre i loro padroni li seguivano con occhi pieni d’affetto, parlando loro con toni morbidi e carezzevoli. Qualcuno, addirittura li portava in braccio, fasciati in maglioncini colorati, trattandoli con una dedizione quasi imbarazzante. Ma quello che rimaneva dietro di loro era tutt’altro che amorevole. Ovunque si posasse lo sguardo, c’erano tracce del loro passaggio: piccole e grandi merde, disseminate lungo le calli strette e nei campi aperti. Mucchi scuri e maleodoranti che spuntavano ai margini delle pietre, nascosti tra i bordi delle fondamenta o, peggio ancora, lasciati in bella vista nel mezzo del passaggio. I turisti, spesso distratti, calpestavano quelle “sorprese” senza nemmeno accorgersene, portandole poi con sé lungo le calli, lasciando una scia sottile ma inconfondibile di merda. Altri, notandole troppo tardi, si fermavano con espressioni disgustate, controllando la suola delle scarpe con un misto di rabbia e rassegnazione. I veneziani, invece, avevano sviluppato una sorta di sesto senso per evitarle. Camminavano con passi attenti, lo sguardo basso, come esploratori in un campo minato. Ogni tanto, però, anche loro venivano colti alla sprovvista, e le imprecazioni che ne seguivano si perdevano nel frastuono delle calli. I bidoni della spazzatura, già traboccanti di ogni genere di rifiuto, contenevano anche sacchetti abbandonati a metà, gonfi e maleodoranti, lasciati lì senza cura. Ma per ogni sacchetto raccolto, ce n’erano altri tre che mancavano all’appello. Molti padroni, troppo pigri o semplicemente indifferenti, si limitavano a distogliere lo sguardo, tirando il guinzaglio per accelerare il passo, come se ignorare il problema potesse farlo sparire. Il porfido, antica memoria di una Venezia gloriosa, era ormai segnato non solo dal tempo e dall’incuria, ma anche da quelle tracce quotidiane, simbolo di un rispetto sempre più assente. Venezia, silenziosa come sempre, subiva in silenzio, trasformata in un enorme parco giochi per animali e padroni distratti. In un angolo della piazza, un uomo magro, dal volto segnato e gli abiti logori, stava immobile, come una statua dimenticata. Le sue mani, nodose e coperte da macchie di vecchiaia. Fissava la scena davanti a sé con occhi scuri, carichi di amarezza. Non c’era rabbia nel suo sguardo, solo una stanchezza profonda, come se tutto quel caos avesse ormai superato il limite della sua capacità di provare indignazione. Si piegò lentamente, con movimenti misurati, per raccogliere un bicchiere di plastica rovesciato. Un rivolo di acqua sporca colò tra le sue dita mentre sollevava il bicchiere. Si fermò un istante, osservando la chiazza scura che si espandeva sul porfido, come se il pavimento stesso stesse sanguinando. “Non la vedono nemmeno,” mormorò a bassa voce, quasi senza rendersene conto. Le parole si persero nel frastuono, come un sussurro in mezzo a una tempesta. Venezia non era più una città. Non lo era da tempo. Era diventata un palco senza attori, uno sfondo per storie che non le appartenevano. Storie raccontate altrove, filtrate attraverso schermi luminosi e condivisioni fugaci, destinate a svanire nel giro di pochi secondi. E mentre loro ridevano, ballavano e filmavano, la città moriva. Non in un grido, non con un crollo improvviso, ma con un’agonia silenziosa, consumata dall’indifferenza e dall’inconsapevolezza di chi la attraversava senza mai davvero vederla.
Continua…..
Scopri di più:
Turismo di massa a Venezia
No Comments